Noi viviamo in epoca in cui il 
					linguaggio naturalistico-zoologico preposto alla descrizione 
					meccanicistica della natura, e quello 
					informativo-interpretativo legato all’operazione di capire e 
					di spiegare i fenomeni della stessa, hanno totalmente 
					estraniato dall’uomo la competenza poetico-evocativa, la 
					sola che permette il distanziamento dall’equivocità degli 
					eventi per porsi sul piano superiore della sintonia e della 
					decifrazione simbolica.  
					 
					È questa un’operazione che, per quanto perversa, trova il 
					suo senso lecito se limitata al contesto materialista e 
					scientifico – anche in questo caso con i dovuti distingui 
					tra scienza sacra e scienza profana²; diventa, però, una 
					strategia losca e distruttiva nel momento in cui viene 
					applicata per ridurre la complessità dell’uomo e, 
					specificamente, quella delle sue espressioni psichiche.  
					 
					È evidente che le due accezioni di potenza e forza, per 
					essere riconosciute come reciprocamente estranee e 
					contrarie, e al di là di ogni capziosa sinonimia, devono 
					essere ricondotte in un preciso contesto discorsivo, in un 
					rigoroso dispositivo intellettuale – dove per intelletto non 
					si intende la diánoia, la ragione, quel paradigma matematico 
					di conoscenza non fenomenica e non ipotizzabile, ma la 
					contemplazione e l’intuizione dei rapporti e delle Idee 
					secondo il noûs, la conoscenza pura. 
								
					 
								
								  
								
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								Disegno> 
								
								
								ADRIANA GONZALES |